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a cura di Michele Paoletti, sul
POESIA DEL NOSTRO TEMPO
18 maggio 2020
Dalla prefazione di Francesco Sassetto
Una scrittura che rivela, sottotraccia, un fitto e variegato retroterra poetico di cui si scorgono in filigrana echi e reminiscenze – come già sottolineato – di molta letteratura del Novecento italiano, Montale e Pavese innanzitutto, come pure del linguaggio cristiano-evangelico, quale sostrato culturale e linguistico ineludibile, che affiora qua e là nell’opera – in modo anche inconscio – influenzandone alcune soluzioni lessicali. Penso ad alcuni vocaboli di ascendenza montaliana quali bufera, cigolìo, svaporare, scrutare, sgroviglia (tutti nelle maddalene) ed ad alcuni stilemi ed atmosfere decisamente pavesiane. Oltre al tema della “solitudine” – talora toccato con accenti vicini al poeta di Lavorare stanca – si ritrovano nella raccolta movenze e ritmi che riecheggiano lo scrittore piemontese.
Oltre ai due esempi prima citati si guardi anche all’incipit della penultima maddalena: «che strane tutte quelle sere randagie in cui mi giro e mi rigiro e la tua assenza è una mezzaluna che agita il lenzuolo, magari esco per strada […]» Un materiale linguistico-espressivo, dunque, che ha radici profonde nell’amalgamare moduli stilistici di varia provenienza ma del tutto assorbito nella personalissima ed affascinante voce poetica di Monica. Voce che in quest’opera percorre un difficile, solitario cammino segnato da solitudini e silenzi, assenze e distanze, ferite e fallimenti, dove sembra regnare la disfatta e il nonamore, dove nulla ritorna proprio come è stato, alla ricerca sotto pelle, in sé e nella moltitudine, di un seme di senso in una piantagione di silenzio. Per sé e per gli altri.
Un seme da raccogliere e da coltivare.