Il Respiro dei luoghi, (conversazioni sull’Heimat e dintorni) p.14
Penso al peregrinare di Celan che, dopo la devastazione della seconda guerra mondiale, orfano, privo di Heimat e con l’identità in frantumi si rifugiò, viaggiando da un paese all’altro, in quell’unico luogo cui autenticamente egli sentì di appartenere: la lingua, paradossalmente proprio la lingua tedesca, idioma materno ma al contempo verbo del nemico. Durante un discorso di ringraziamento pronunciato a Brema, in occasione di un premio letterario conferitogli Celan disse:
«Ho tentato di scrivere poesie: per parlare, per orientarmi, per riconoscere il luogo, dove mi trovavo…».
Prosegue, nel medesimo contesto, riconoscendo alla lingua lo status di unica sopravissuta:
«Raggiungibile, vicina e non perduta in mezzo a tante perdite, una cosa sola: la lingua».
Celan, senza più luoghi cui fare ritorno, si rifugiò nelle sue “parole-tenda”, parole in cui il senso stesso si dilata in un astruso gioco di associazioni che infrange e reinventa le regole, tracciando un criptico passaggio verso l’altro, offrendo al poeta uno spiraglio di appartenenza e di identificazione che si sostituisce alla mancanza del tutto.
Le mie poesie per P.Celan
Per P. Antschel
A te
che io nuovamente scrivo e scrivo
come volessi dire
qualcosa.
Qualcosa di me, di te
di un’obliata appartenenza
di un filo nero e una lingua livida
che non tace e m’inquieta
non il bianco e nero il tuo sguardo di sbieco
l’incostanza del cuore gli inganni.
Allora ricomincio
e non è mica di noi
ma del resto del mondo
questo inorridire
il cuore slabbrato
in catene senza fatiche
il sopravvivere senza sete
fame cordoglio
morire
di troppa presenza.
E io
E io che sono
solo un attimo di Ulisse
un capello d’oro Margarete
un filo di gomitolo o pube
E io che sono
solo un mezzo grafema
sulle rotaie del vivere quest’attimo di treno
che sono e non sono.
Dopo il fondale
non sempre ricordo
ma quella nullesia
altura senza tregua
ai piedi del sonno
mi snida il tempo.