En el umbral

En el umbral

En el umbral (Uniediciones, 2019)
Traduction Antonio Nazzaro

Es la bitácora de una larga despedida en un umbral que es una demarcación de un confín, de la esperanza de que todo pueda salir bien, de un happy ending inexistente. El relato de una pérdida por parte de quien se queda.

Cuando nos saludamos en el umbral porque alguien está a punto de partir, auguramos un buen viaje y un buen retorno. Si es cierto el no retorno ya desde un comienzo, se busca de todas las maneras posibles detener a quien está por irse, dándonos la ilusión de lograrlo durante los altibajos de un largo periodo de enfermedad. Y quien es capaz lo escribe, como hizo Monica. La sensible ternura, junta al dolor que sobresale desde el prólogo, viene al final, acercándose al sentido amargo de la realidad, pero con una mirada nueva, directa y ya sin el temor de aminorarse. Todo esto hace de un poemario atrayente e interesante. Es la fuerza de ponerse a prueba, de rebasar y quedar, utilizando esta “Errante paloma imaginaria”, grande e incomprendida, la poesía.

ISBN: 978-958-5589-07-0. 1° Edición 2020. 88 págs. Rústica. 15×23 cm. COP $30.000, USD 11

http://www.uniediciones.com/index.php/es/about-alias/en-el-umbral-detail

 

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su clanDestino a cura di Michele Paoletti

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La soglia del dolore di Monica Guerra 

di Michele Paoletti

Se scrivere è un atto di responsabilità, scrivere della morte lo è ancora di più perché significa farsi portatori del ricordo nel tempo: salvare, conservare qualcosa di prezioso e irripetibile. Di fronte all’incedere inesorabile della malattia, molteplici sono le scelte, anche se la direzione verso cui tutte queste possibilità convergono è una e una soltanto. Se, come nel caso di Monica Guerra, si sceglie il silenzio, le parole che vengono dopo assumono un peso e una sostanza maggiore perché conservano al loro interno tutti gli strati e i sedimenti che si sono accumulati lungo il percorso. Sulla soglia (Samuele Editore, 2017) è un atto di amore e di responsabilità, non semplicemente un diario ma una cronologia del dolore e nel dolore. E un atto di coraggio. La raccolta bilingue (le poesie sono state scritte in italiano e tradotte in inglese dalla stessa autrice) è suddivisa in due sezioni, Il saluto e Il ricordo, più un prologo e un epilogo.

Ne Il saluto i testi sono contraddistinti da una data: qui il tempo ha una misura precisa, il carezzare le ferite allineate, la tazza di caffè, l’ombra lunga del cipresso.
È interessante notare come numerosi testi siano contraddistinti da una componente sensoriale e come Monica Guerra scelga non a caso la vista e il tatto per misurare la distanza tra il gesto di morire e l’estrema urgenza di contatto. Nonostante si avverta la costante presenza del dolore e la necessità di dare il nome alle cose per come sono, è solo nel testo che chiude la sezione, quello cronologicamente più distante dalla perdita che l’autrice utilizza la parola dolore come a dire che il percorso, seppure a ritroso ci porta qui e da qui è partito. La soglia diventa dunque luogo del dolore, zona di confine tra i vivi e i morti dove chi resta sceglie l’amore come risposta alla perdita, sceglie di salvare l’incrocio di mani / che siamo stati.

Ne Il ricordo i riferimenti temporali vengono meno, lo sguardo dell’autrice si sposta ad un livello superiore e la scelta si fa chiara: e se scrivo e per farti poesia / impastare la stagione sul tuo viso. / ci si salva e si muore, / ognuno a suo modo. / ogni giorno, ognuno come può. Perché nonostante tutto occorre inventarsi la vita,riprendere a danzare, a fluire lungo una vita imperfetta eppure sbraitante e meravigliosamente viva.

 

noi ci teniamo per mano
tra le crepe dei non ti scordar di me
come sporadiche fioriture di Marzo
nel sempreverde del ricordo
il cielo precario e torrenziale solitudine.

 

5 LUGLIO 2016

in questo buco troppo cupo
per sbiadire l’ultima fatica,
il tuo saluto, la mia elegia.
il nero muro è la malattia.

 

22 GIUGNO 2016

grida distanza la valigia chiusa
sentieri stellari dietro lo spigolo quotidiano
perché morire
è solo vivere a rovescio.

 

17 MAGGIO 2016

sfogliavamo insieme
le stelle una dozzina
di cieli stralunati tu smistavi
una costellazione
e poi d’un tratto
scorrere o il solco di un nonamore

la sorgente a rovescio
poggiasti il bicchiere

perché morire
morire è un’isola

perché morire
non è come dirlo.

 

1 SETTEMBRE 2014

il mio dolore s’accuccia ai piedi del tuo silenzio
che non so nulla del morire e non ti posso aiutare
vorrei tu mi placassi con una qualsiasi cosa vera
fosse anche solo il tuo nome
mentre tu di sbieco sorridi e spalmi bene,
tra le dita, la crema
ma il tuo dolore non abita qui
non ci sono vie di fuga
c’è solo andare.

 

*
in verità qui non esiste
non esiste certo né assolutamente
esiste la vita parziale finché esiste
sbraitante all’angolo della strada
nel centro esatto dell’impermanenza
e allora è salvare, la necessità,
salvare l’incrocio di mani
che siamo stati

 

*
lungo la strada di casa un’ombra
non avevo mai visto tanta luce

e hai cominciato a ridere
a ridere di me, di noi, e stanavi viva

oltre gli acini violacei degli occhi
la mano, ti domandavo dove

cosa devo fare e la radio a farneticare,
la vita si è addormentata e noi

abbiamo ripreso a danzare

 

Estratto Sulla soglia da Anterem

Estratto Sulla soglia da Anterem

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Da “Sulla soglia”, Samuele Editore, 2017

 

4 luglio 2016

la paura è un morire piano
calma piatta nella gola
un arto alla volta
l’acqua che sale.

 

25 giugno 2016

qui è un filare anche il carezzare
tra ferite allineate
che non sono trama di parole
o la danza dell’ossigeno
che misura le presenze.

 

22 giugno 2016

grida distanza la valigia chiusa
sentieri stellari dietro lo spigolo quotidiano
perché morire
è solo vivere a rovescio.

 

***

vivere a prova di qualunque
garanzia – morire
sgombra tutte le stanze

Intervista su Neobar

Intervista su Neobar

Intervista Senza Domande a Monica Guerra (di Flavio Almerighi)
Sotto Vuoto poesie trascelte di Monica Guerra (ed. Il Vicolo)

Da questo poco sospeso
tutto si fa chiaro e ogni cosa sta
nell’esattezza del proprio posto” … Monica Guerra da Sotto Vuoto

Non tragga in inganno l’aspetto di quaderno che ha questo libro, l’edizione è elegante i contenuti musica. In fin dei conti la musica è il contrasto che intercorre tra suono e silenzio, tra tono e tono. Musica è il suono stesso dell’involucro sotto vuoto che protegge l’anima, il ricordo, le radici, qualsiasi cosa, che spaccandosi produce suono. La poesia di Monica Guerra è particolarmente adatta a farsi musica. I versi, spesso secchi, sono quelli che preferisco (io li definisco a dente di squalo). Composizioni assolutamente in antitesi con la verbosità e la simil prosa che spesso affligge la poesia contemporanea. Il bianco tra un verso e l’altro favorisce la musica.Monica dipana due filoni precisi. Quello più personale e autobiografico con la definizioni di figure compiute nel suo passato. Quello dell’osservatrice, e cos’è il Poeta se non il migliore osservatore al mondo! Momenti familiari, il senso di appartenenza (badate bene, non di nostalgia!) per il mondo che l’ha vista crescere, prima bambina, poi ragazza, poi donna, e il viaggio in Russia che l’ha maturata e segnata in senso positivo.

C’è una forte, positiva tensione tra Monica e il mondo culturale e poetico russo, non dimentichiamo che l’autrice conosce bene inglese e russo, il che la avvicina a un mondo poetico molto più cosmopolita. Quando parla di quel “grande freddo”, i suoi versi raggiungono momenti di particolare, intensa drammaticità. Sfuggono al diario, diventano osservazione, hanno un dentro e un fuori.

Si capisce come sia l’esperienza quella “comare” con cui fare i conti e a cui rendere conto, e da essa ripartire verso un mondo sempre nuovo da guardare con gli occhi stupiti di una bambina. E’ la capacità di sapersi meravigliare, del non dare mai nulla per scontato, il rifiuto completo della patetica nostalgia di qualcosa o per qualcuno che non è più, ed e da questa inaspettata, tagliente, grinta che l’autrice riparte verso quello che forse non è più un mondo nuovo, ma un mondo che sicuramente ancora le offrirà slancio e spunto per definire ispirazione e poesia.

1) nella stessa lontananza (pg. 14)

Vicinanza e lontananza sono termini legati alla sfera spaziale, ruotano attorno alla fisicità, alla presenza o all’assenza, ma in una relazione di coppia caratterizzata da una distanza, tanto abituale quanto inevitabile, assumono, nel tempo, sfumature più liquide. Il mio “Amarsi” si nutre del ri-conoscersi nella reciprocità della mancanza, una brama nostalgica che appartiene a entrambi nel medesimo momento e in cui, emotivamente uniti, ci si rispecchia.

2) io che scivolo un valico la poesia (pg. 22)

Il mio nerobuio del tunnel, il mio universo sottosopra, quell’unico varco solitario da cui riesco a scorgere un barlume di senso: la caduta libera nell’autentico mondo del profondo e poco importa la misura dell’abisso che si trova sul fondo, il centro esatto è Poesia.

3) che la bellezza non è fissità (pg. 24)

La fissità è l’antitesi della vita, un tentativo umano di rendere immobile ciò che immobile per sua natura non è, lo sforzo vano di cristallizzare qualcosa per timore di perderlo. Salpando dal conosciuto si teme, talvolta, di smarrire qualcosa di sé, il non conoscere sfida il non riconoscersi. La Bellezza è un’armonia costruttiva e dovrebbe essere accettata e celebrata entro la sua stessa variabilità. Inscindibile dalla fisarmonica del buono la bellezza è, a mio avviso, autenticità metamorfica.

4) e noi, stranieri, a casa (pg. 31)

Casa è ciò che porto con me, per giungervi devo sgombrare il superfluo, rinunciare alla pretesa della protezione di un qualunque recinto. L’essere straniera in una landa sconosciuta mi conduce nei meandri rarefatti dell’intimo, attraverso una preziosa mappa dell’animo. Nella precarietà dell’inconsueto sono soltanto io, le mie mani nude, le mie nude risorse a fare di me, entro i miei limiti, la miglior dimora possibile. Giungo a casa dallo spaesamento.

5) il riflesso che incalza, vuoto a rendere (pg. 39)

Il paradosso di un’indicibile solitudine su un treno gremito.
Il paradosso di scrivere dell’indicibile.
Il paradosso del riconoscermi in quell’unica forma destinata a deperire.

Non prenderti così sul serio,
sussurra il mio riflesso dal velo bianco del finestrino,
la verità lì non esiste e la giustizia è parziale.

Non prenderli così sul serio,
nel loro vacuo rumore, sul binario
chiacchiericcio estenuante del nulladire.

Sfila muta la neve a imbottire l’intercapedine.

Sono vuoto a rendere,
questi quattro connotati
in cui ora mi riconosco.

6) le ginocchia negli spigoli della stazione (pg. 43)

Una metropoli in cui tutto appare candido e trionfante, nelle larghe strade non c’è traccia di povertà se non qualche inappropriata, sporadica, emanazione che fuoriesce dai buchi della stazione. E giù due manganellate, una divisa, quanto basta a contenere quattro moncherini mendicanti uno sguardo. Un tombino o un coperchio. Non essere visti o non esistere?

7) una luna resiste imprecisa (pg. 47)

Qualcosa resta, seppur calante o crescente, ciclico e mutante, comunque in sostanza resta. Al di là del nostro comprenderlo o non comprenderlo. Al di sopra di noi. Resta ciò che rappresenta, ciò che simboleggia, ciò che ci travalica. L’alba sale e la luna, piena di grazia, indossando il cielo si maschera. Qualcosa sta, al di là dei nostri umani limiti che corrompono la vista.

8) tutto si fa chiaro e ogni cosa sta (pg. 51)

All’improvviso, inciampando nel verde curvilineo di fronte al mio piccolo terrazzo, con i sensi pacificati dalla cornice dei miei luoghi, ogni cosa trova l’esattezza del suo posto. Come se, dopo tanto buio peregrinare, una piccola lanterna illuminasse il quadro a giorno. Sono qui, dentro di me, una luce minimale, al posto giusto.

9) nello spicchio l’interezza (pg. 52)

Tutta la complessità del macrocosmo sta comodamente ripiegata entro la piccolezza del micro. Dall’analisi di uno spicchio emerge la misura esatta del tutto. Proporzione? Geometria? Forse solo dal Noi si può intendere e convalidare l’io.

10) un folto di strofe il silenzio (pg. 54)

Alcuni luoghi ci parlano. Il viale del mio paese è uno di questi. Ricordo un passeggiare silenzioso, eppure denso di rumori di vita vissuta. L’eco dei passi accumulati nei secoli, il fiume che borbotta nel sottofondo, le campane a scandire la morsa del tempo, una donna che sbatte una tovaglia a quadri su un cortile, il cigolio di una carrucola che agita le lenzuola stese ad asciugare. Il concerto autentico della vita nella dimensione poetica del silenzio.

11) noi, qualcuno, qualcun altro? (pg. 57)

Ogni uomo, da solo, non vale quanto singolarmente varrebbe se unito agli altri. Viviamo in un tempo di buchi e di tane, all’interno dei quali ognuno si crogiola e impera. Ego tronfi e deliranti, pensieri ristretti in logiche individuali e cuori in isolamento. La vita prescinde dall’uno, se quell’uno non riconosce in sé il seme del Tutto.

12) la foglia viva che mi distoglie (pg. 61)

Amo stare all’aperto, passeggiare, annusare, filtrare la vita attraverso i sensi. La natura mi ripaga con l’ineguagliabile moneta del colore. Il Bianco e il nero sono l’eterna dicotomia dell’umano, la corda tesa a mezza via su cui il bipede funambolo, barcollando, tenta di rimanere. La foglia viva (e verde) mi spalanca l’orizzonte, rappresenta una categoria non esauribile nel principio della dualità. Armonia e non dominio.

13) muto che da solo vale tutto (pg. 70)

Io che amo le parole. Io che ho atteso una frase d’amore tutta la vita, in un mare di assenza genitoriale. Io che ho avuto, da adulta, il privilegio di un solo e unico abbraccio paterno. Il gesto muto che supera il limite di ogni eloquenza.

14) (che sia più preciso dell’orologio?) (pg. 71)

Il tempo dei ricordi non è lineare, spesso s’inerpica e s’invola, talvolta s’incastra. Per quanto possa essere confuso e instabile, divine un’isola di salvezza, specialmente nella vecchiaia. Sul bordo del letto mia nonna piangeva una fuga di casa, avvenuta quarantaquattro anni prima. Prima che io nascessi. Il dolore è uno strumento affilato e ben più preciso dell’orologio.

15) nelle pause delle nostre differenze (pg. 72)

Distanziare, contestare, esasperare le differenze -finanche le diffidenze- conduce in una terra di desolazione. Solo sospendere il giudizio e capire che l’altro da noi non è altro che il frutto di una vita diversa. Mettere in “pausa” le differenze significa concedere e concedersi l’opportunità di costruire, di stabilire un rapporto autentico, rinunciando a pregiudizi e convenevoli.

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