è la vita/la liturgia per andare in pace
Cosa sono, cosa rappresentano le mura che Monica Guerra ci para davanti in caratteri corposi nella raffinata copertina della sua nuova opera di poesia? Evidentemente qualcosa di diverso da un muro, facilmente interpretabile come ostacolo, impedimento, opposizione, difficoltà, fisica o morale che sia.
Qui le mura hanno qualcosa di abbordabile, conciliante, un che di femminile che lascia immaginare, appunto, un dentro e un fuori con cui intessere relazioni, con cui interloquire. In realtà, a mio parere, il tema di tutte le opere di Monica Guerra, il senso che le attraversa sia pure nella loro specificità, è in definitiva quello del movimento, un movimento da e verso l’Altro, un viaggio continuo, irrinunciabile, resiliente per superare ostacoli, nodi intricati, per sconfiggere gli immobilismi, le chiusure. “Una forma di resilienza della vita stessa, ben oltre le fratture spesso indotte dalla fragilità umana”, come chiosa la stessa poeta nelle sue note ai testi della prima sezione, che accarezzano con autentica pìetasanziani, disabili, pazienti con problematiche psichiatriche. Perché?
La risposta mi pare semplice, intuitiva: perché ciascuno di noi si compie solo attraverso l’interazione con l’altro da sé, perché è solo rispecchiandosi nello sguardo dell’altro che si può riconoscere. Senza scomodare Lévinas, questa è esperienza quotidiana comune, a patto che la si sappia riconoscere, palesatasi con evidenza anche dolorosa in questo tempo di prolungato confinamento per difenderci dal Covid 19: insomma, perfino chi credeva con supponenza di poter bastare a sé stesso, s’è dovuto ricredere.
Così Monica Guerra ci racconta con delicatezza e per scorci di un’irruzione di volti che (la e ci) costringe a fare i conti con un’alterità difficile e tuttavia potenzialmente salvifica perché in grado di sottrarci alla nostra condizione meramente biologica, al nostro semplice egoistico dover esistere. Un’irruzione che può indurre timore, ma non paura; e il timore – si sa – non è che preludio di gioia.
Si vedano il testo I dedicato a Natalina (e così per te sale questa/primavera ogni voce priva/di un gesto sul fiato che si spacca) a cui fa eco il V, con la reiterazione del verbo spaccare, che risuona in ogni spazio bianco della pagina (ma io volevo salparti sul rituale delle nuvole/senza l’ombra di un’altra croce//implorando ancora un minuto/per abituarmi alla voce del verbo perdere//la liturgia della tua dolcezza/senza mani spacca in due il mondo), passando attraverso i testi II e III dedicati a Giovanni, “vivo per poesia”, per il quale un verso/sulla parete è il varco.
Fino a che punto – viene da chiedersi – è accettabile La misura del vuoto che dà il titolo a questa prima sezione del libro? E poi, si tratta di un vuoto per assenza da curare, si tratta di ferite da cucire e rimarginare? O, piuttosto, di un vuoto necessario e fecondo per ripartire anche a costo di un cambio di rotta? Parlare è sempre un po’ balbettare perché la complessità del nostro mondo interiore custodito nel silenzio non passa attraverso la lingua parlata. Ma la poesia può compiere il miracolo di attingere a questa zona muta e portare alla luce un vissuto, una sofferenza anche devastanti. La nostra poeta, incrociando queste persone, pare avvertire dietro lo sterno un crepitio che non può più contenere e allora mette in scena la sua umanità con un’opera di montaggio accurata e necessaria dove corpo e parola si confrontano e si sfidano fino a sgretolare ogni tentazione di dare spazio all’io lirico in vista di una grazia da conquistare.
In Sotto vuoto, Il Vicolo, 2016, Monica aveva lasciato intendere che l’esilio, come condizione metafisica, può essere riscattato dalla poesia che consente, almeno per barlumi, di intravvedere tracce di luoghi dove l’ordine perduto del mondo ha dimora; e, ancora, che viaggiare anche con il solo desiderio comporta un deragliare, un vibrare interiore (bere l’intero di ogni respiro senza sapere “cosa” ma sapere che sa di casa). Nel più recente Nella moltitudine, Il Vicolo, 2020, aveva ribadito che la poesia è un invischiarsi nella palude, un farsi contaminare per lavare le ferite e farle luccicare al punto da esibirne l’incanto e la fertilità (… lo sapevi maddalena che/amare un poeta è una palude ma sottovoce è un/chiodo che lava nel fango tutte le ferite; la distanza/non è un grido ma la misura della bellezza di/uno stame dalla sua radice).
In questo Entro fuori le mura (si noti la mancanza di congiunzione) il movimento continua per altre vie, facendosi viaggio, pellegrinaggio: un varcare la soglia di casa o, se vogliamo, di sé stessa per l’avventura che è la vita, se non la si vuole subire passivamente. E qui ci viene in soccorso l’etimologia delle due parole. Cos’è un pellegrinaggio se non un andare per agrum, cioè un attraversare campi superando ogni tipo di ostacolo – cosa non facile, evidentemente, cosa che può far gettare la spugna, spingere alla resa, anche se temporanea, anche se provvisoria -. Cos’è un’avventura se non un andare verso le cose che verranno, un proiettarsi senza rete verso un futuro che attrae, sul quale vogliamo investire, ignari su cosa potrà riservarci. Timore e tremore possono accompagnarlo, ma la spinta, la speranza sono così forti da persuadere alla partenza (chiedilo a un indizio di neve/niente è impossibile//nell’unità il punto zero esiste/fosse ripartire dalla cenere//e in questa notte a lato delle stelle/anche lo sterco esala un bagliore).
Monica Guerra lo fa in buona compagnia: sono poeti speciali, e meno frequentati rispetto ad altri, come Seamus Heaney, Rainer Maria Rilke, Charles Simić, Antonio Porta, Lucrezio, Peter Handke ad aprirle la strada nelle quattro sezioni del libro; ma concorrono felicemente all’impresa quattro immagini in bianco e nero di Virginia Morini, giovane e promettente fotografa d’arte, che hagià dato prove di grande spessore e originalità. Se ne La misura del vuoto la prospettiva pare essere quella di uno sguardo capovolto, in Istantanee pare di intuire che ad occhi chiusi si vede meglio. Se ne La paralisi del giorno la bellissima figura con schiena addossata ad una porta bianca, la cui parte inferiore del corpo sfuma nel nero dello sfondo, le mani solo apparentemente rilassate in grembo, sembra covare il desiderio di rialzarsi attraverso la luce che inquadra il viso ancora un po’ piegato e un movimento accennato appunto nelle piccole mani, in Nonostante, ultima sezione della ricerca, la figura esce dalla pagina spuntando obliqua da destra e occupando la scena, lo sguardo disteso, finalmente, tenero e determinato, le labbra appena schiuse di chi sa come procedere; vorrei aggiungere come un fiore che sboccia e si apre alla vita, correndo il rischio di essere leziosa.
Tutto in questa nuova silloge di Monica Guerra lancia segnali per orientarne la lettura, per marcare la soglia d’accesso alla parola: forme di paratesto meditate, misurate, imbastite con cura, non ultimo l’accurato e appassionato saggio di Sandro Pecchiari che si chiede e chiede a ciascun lettore “La finzione salva la vita?”. La risposta dell’autrice ci soccorre chiara nel testo finale Appendice: sì – la finzione a volte salva la vita –. Certo le ferite non cicatrizzano facilmente, ma può capitare anche tra le casse colorate di bibite o – aggiungo io – di fronte a una vetrina che espone in saldo un abito di perfetto arancione, di scorgere una via di fuga, un guizzo, se non di felicità, di leggerezza per procedere in libertà nell’avventura che è la vita.
Nadia Scappini