“Entro fuori le mura” di Monica Guerra
(Arcipelago Itaca, Osimo (An), 2021)
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Monica Guerra svolge in questo libro un viaggio tra interno ed esterno, tra costruzioni interiori e realtà esterne in un processo continuo di apertura e chiusura, di allusione e disvelamento. In tal senso la sua poesia è parola che si contrae, si raggruma per poi dilatarsi, espandersi in forme ora liriche, ora aforismatiche, altre volte più distese, ma sempre essenziali, precise, minimali.
La poesia di Guerra è certamente legata ai luoghi, agli ambienti, ma non cede al descrittivismo puro, non si abbandona al memorialismo narrativo: lei cerca il sensibile, desidera offrirci la trama segreta del paesaggio che è anche stato dell’esserci, passaggio da un modo di stare ad un altro, che è forma cangiante dello sguardo che si misura con l’esterno e così con se stesso, perché siamo dentro e al tempo stesso fuori, e noi stessi siamo qualcosa che sta fuori nel momento in cui ci guardiamo dentro, parte integrante del paesaggio-passaggio. Questa dialettica tra spazio e tempo, che in altri poeti è una cornice, oppure un tema, per Guerra è la poesia stessa, è l’anima del verso, è lo sfumare/svanire della realtà dentro la realtà della poesia che a, sua volta, si rovescia in una luce diversa (di-vertere, guardare altrove) che ci fa com-prendere, con tutti i limiti, dove siamo e dove/come potremmo essere altrimenti. Pertanto i luoghi non sono solo spazi fisici, ma modi di sentire e vivere l’esperienza.
La poesia di Monica Guerra sa cogliere, per così dire, la temperatura dei fatti, delle cose, dei luoghi attraverso un linguaggio semplice ma pieno di risonanze. Lei predilige, infatti, il tono colloquiale, ma pur carico di vibrazioni, senza emozionalismi, mescolato a forme del parlare diretto. Guerra ci tiene sospesi al filo delle sue intuizioni, in bilico sulla soglia della luce che si apre e si chiude nella sua poesia.
Nel saggio di Sandro Pecchiari che accompagna il libro troviamo scritto: (…) La realtà dei versi di questo libro è in alternanza continua tra paesaggi naturali (quelli che toccano i nostri aspetti più intimi e profondi) e realtà artificiali antropizzate fino a diventare a volte disumane: il percorso da fare è riuscire ad acquisire in modo attivo (e non accettarle passivamente) e armonizzarsi in tutte queste diversità. E considerare che l’interazione rende possibile diverse sistemazioni del nostro io: riuscire ad esserci e essere compatibili o no nel confine labile delle mura. E sapere osservare con lucidità e descrivere tutte le sfumature dei luoghi nei nostri viaggi mentali. E che siamo contemporaneamente quello che siamo in un dato spazio-tempo ma anche tutto quello che avremmo potuto essere e/o avere: in fondo l’amore si avvicina a questo stato d’animo. (…).
Quattro parti compongono questa raccolta: La misura del vuoto, Istantanee,La paralisi del giorno e Nonostante. Titoli di sezioni evocativi e significativi dell’approccio stilistico e contenutistico della sua poesia che, come detto, ci offre immagini intense: “fuori è rovo di un altrove” – “una stagione/di pietra dai vetri chiusi” – “qui il volto muore a solo” sono alcuni versi della prima sezione “La misura del vuoto”, appunto, che pare una metafora del periodo pandemico più duro, mai opportunamente nominato in modo esplicito, così come si confà ai poeti.
In “Istantanee” si è trasportati a Mosca, Austin, Venezia, ma non c’è differenza con Faenza luogo principale del “viaggio”. Quel che conta è il lampo della visione, l’attimo che si dilata nel suo perdersi “per sigillare le porte alle distanze/ fra un saliscendi e l’altro/ un buco- tutto il vuoto necessario –“ e c’è spazio per gli affetti familiari, per le amicizie come per gli incontri casuali: “attraversa di fretta/nel tailleur grigio/ sui tacchi in ritardo/il clacson protesta/al semaforo verde/ – il tempo/ è ringhiarsi l’un altro“ (versi che mi hanno ricordato, nella prima parte, la canzone di Fabrizio De Andrè “Se ti tagliassero a pezzetti”). C’è spazio per soste tenere (“due ragazzi distesi nel verde// esplorano i baci sul collo” ) o per la cronaca triste (…l’intervista sulla porta di casa/le grida i parenti: sarà stata la droga/ era un bravo ragazzo”).
“La paralisi del giorno” ci fa rientrare nel clima dominante del libro: fango, paura, spine, orma, chiodi… sono i lemmi che ricorrono: Monica Guerra ci dice che “svivere scortica anche a me” (“questo mare agita anche me” cantava Enrico Ruggeri) e tutta la sezione è agitata da una musicalità dolente, da una versificazione mirata in cui la stessa spazializzazione del verso ha un senso per esprimere appunto lo spaesamento, l’essere qui e altrove di cui si diceva. Molto efficace, ad esempio, il salto tra l’apparente calma di un paesaggio bucolico sui Carpazi dove “il gregge sfuma lento nel fiume” (altro eco lirico musicale) e il finale “ma laggiù le sirene in nome/ di dio la gente muore” riferendosi alla strage islamista di Nizza del 14 luglio 2016.
Ma il tono della sezione, dicevo. Eccolo: “la voce cruda della vastità/ punge sottopelle e inquietudine/allaga la faglia del silenzio// com’è facile soli/l’altro occhio della luna/ il deserto// com’è difficile il contempo”. La vita di provincia non è dipinta per bozzetti, ma aggredita con la sensibilità della poesia che, così facendo, la rende persino più aspra e dura: “l’orizzonte è nella tela di un ragno// sempre vicino qualcosa/ qualcosa che poi non succede”.
Chiude il libro la sezione “Nonostante” che è come un ritorno a casa, un rientrare nelle sensibilità positive della vita e prendono spazio, come è stato notato da Sandro Pecchiari, colori, suoni, profumi a segnare l’idea che un luogo dentro di noi c’è per poter ripartire. Come accade spesso nella buona poesia contemporanea, il negativo può essere superato se non sperperiamo i margini di bene che possiamo costruire. L’altrove è qui ed è soprattutto un modo altro di sorprendersi, di vedere le cose da un punto di vista più alto e profondo, pur nella consapevolezza dei limiti. Così Monica Guerra ci dice: “chiedilo a un indizio di neve/ niente è impossibile…// anche lo sterco esala un bagliore” e ci dice anche che “..navigare /i seni verdi dell’onda è sapersi vivi” e che “ancora suona/ sotto le dita una ringhiera” e ancora “tra i rami del giorno sfila/ la bellezza di una zagara”.
Versi semplici che indicano che quel che si desidera è “il silenzio buono della rinascita”, “il silenzio fra briciole” , è restare “dove/ non è il tempo là dove/ lo spazio non è cosa// deludiamo i confini e miele dai seni di ciliegio// diveniamo l’altro, /la stessa cosa”.
Allora ci tocca restare fuori dal fluire delle cose, immersi una sorta di nuova arcadia (miele dai seni di ciliegio) fatta di silenzio e meditazione, senza il vincolo di un confine se non quello che giorno dopo giorno troviamo, nonostante tutto, entro fuori le mura.
Stefano Vitale