Nella moltitudine (Il vicolo, 2020)
Prefazione di Francesco Sassetto
Ci sono libri di poesia che si cercano, libri che capitano per caso tra le mani, libri che si attendono. È quest’ultimo il caso dell’ottima quarta opera di Monica Guerra dopo Semi di sé , Sottovuoto e Sulla soglia. In quest’ultima raccolta Monica mette ulteriormente a fuoco, con rigo- re e lucida consapevolezza, i motivi dominanti di un orizzonte poetico ed umano coerente, denso ed in- tenso, lungamente meditato per sfociare poi, in un breve giro di anni, sulla carta. Perché i testi vengo- no da lontano ed arrivano a farsi poesia – verso o “prosa poetica” poco importa – per stratificazioni successive di dati esperienziali che trovano il pro- prio habitus stilistico-formale, la loro piena e nitida espressione, solo nel tempo, costruendo un dettato poetico – e questo è ciò che conta – di forte impatto emotivo, sofferto e commovente (nel senso etimolo- gico del temine) nella sua disarmata verità, nella sua dolente umanità dove – non credo di esagerare – ogni parola è, per dirla con Ungaretti, «scavata nella mia vita / come un abisso». Perciò ho parlato di questo come di un libro di poesia «che si doveva attendere».
Varia e saldamente articolata appare la struttura compositiva dell’opera, divisa in quattro sezioni, quasi quattro “tempi” di una sinfonia. La prima,maddalene, composta di venti prose poetiche, l’architrave del libro, seguita dalle sezioni la cor- rente del silenzio e nella moltitudine che riunisco- no nove brevi liriche ciascuna, per chiudersi con page8image1544nel conto alla rovescia, che racchiude altre sei prose, mesta elegia della perdita irreparabile. L’intera raccolta, ma soprattutto le maddalene, una sorta di “stazioni”, riflessioni e pensieri di un cammino che mira ad un futuro da scrutare con la voce dentro il pugno, è intrisa di vocaboli ed espressioni di ascendenza evangelica: troviamo infatti, più volte, il cerchio spinato, il chiodo, ledodici parole sul copriletto e soprattutto – fin dai titoli delle sezioni – nella moltitudine e maddalena, interlocutrice della prima sezione. Una mad- dalena che, al di là delle identificazioni possibili, è figura di donna vicina a Cristo, cui Monica si rivolge con un “tu” che è, oltre che un “alter ego”, un “noi”, la moltitudine: «io è tanti…», quell’«io retrattile e sconosciuto / per raggiunger- si nella moltitudine», come scrive nella lirica che chiude la sezione omonima. Un linguaggio conno- tato, dunque, anche dal rinvio ai lessemi simboli- ci di una laicissima religiosità che parla all’uma- nità intera, si fa canto universale. E questa è poe- sia vera ed alta, che non vuole insegnare, non ha verità né certezze assolute, può solo indicare unmodus vivendi più pieno e sapido. In questa silloge la poetessa instaura un dialogo assiduo con il lettore, dialogo che cattura, trascina, suggerisce in quale direzione procedere, addita una traiettoria possibile oltre la soglia del dolore e la disfatta quotidiana, per tentare di giungere a scrutare il lato eterno delle cose attraverso l’intercapedine, una sorta di “passaggio” tra la sofferenza e la speranza, il silenzio e la voce, percorrendo i cunicoli, le pieghe dell’esistenza – termini-chiave che ricorrono più volte, come fil rouge, in questa e nelle altre opere dell’autrice – in un incessante lavoro di scavo nelle profondità dell’anima, nellapage8image18392page8image18816page8image18976 consapevolezza che l’intarsio è l’unico perimetro che rimane ed ogni destinazione è un incrocio. Colpisce la capacità di Monica Guerra di creare testi poetici e prosastici densamente allusivi e metaforici, a volte “visionari”, ma senza alcuna concessione ad orfiche oscurità né a scivolamenti autobiografici per quanto la scrittura sia impasta- ta di esperienze vissute e dunque, concreta, mate- rica, ancorata alla terra ed agli eventi dell’esi- stenza, come mostra bene l’alto tasso di occorren- ze di vocaboli che si riferiscono ad oggetti, am- bienti ed eventi della quotidianità e del paesaggio naturale, quel paesaggio che affonda le radici nel- la giovinezza tredoziese della poetessa. Termini come soglia, vetri, pioggia, neve, corrente, spi- ghe, margherite, seme, pelle, lenzuolo costruisco- no un tessuto linguistico di forte valenza evocati- va, che rimbalza all’interno dell’opera e nelle rac- colte precedenti. Basti guardare a come l’endeca- sillabo un non ti scordar di me tra le crepe della prima maddalena provenga direttamente dalla lirica d’apertura di Sulla soglia: «noi ci teniamo per mano / tra le crepe dei non ti scordar di me». Anima quest’opera, infatti, l’intima convinzione che sia da ricercare a tutti i costi l’unica via d’u- scita, la montaliana “via di fuga” che si traduce in una tensione verso l’altro, dolorosa e spesso fallimentare, ma che porta a guardare in facciaperdita, assenza, attesa, distanza. Senza trema- re. Senza fuggire il dolore, la solitudine, le lacera- zioni, come pure il mutare imprevedibile delle di- rezioni, gli equilibri precari perché il “viaggio” continua sempre, con una determinazione che porta la poetessa ad affermare – cito dalle madda- lene – che siamo tutti in «un cerchio spinato senza lo straccio di una direzione e la vita a giorni alterni è ombre superstiti o colpi da schivare». Senza retrocedere né annichilire, anzi, da questa lucida consapevolezza si genera la spinta, la pul- sione a salpare, malgrado «l’infrangersi dell’onda sulle aspettative o persino il repentino cambio di corrente», superare con coraggio la disfatta quo- tidiana senza facili soluzioni consolatorie ma con una volontà ferma di re-azione. Perché, come scri- ve nella chiusa di verrà, dicevi, la sera di piombo, lirica d’apertura della sezione nella moltitudine, modulata in cadenze pavesiane (come non pensare a «Verrà la morte e avrà i tuoi occhi?»): «l’attesa è un tempio / in cui si fa la fame». Bisogna allora «consumare bene le scarpe persino i piedi oltre la soglia del dolore e saper ribaltare i tavoli e qual- che volta le prospettive» per attraversare il pas- saggio che conduce alla pacatezza delle margheri- te. In questa continua dialettica, in questa aspira- zione ad un equilibrio il meno possibile precario vive l’universo poetico di Monica.