su Radio Emilia Romagna

Su Le voci delle Luna
A cura di Rossella Renzi, sul nr. 77 del quadrimestrale Le voci della luna.
A cura di Rossella Renzi, sul nr. 77 del quadrimestrale Le voci della luna.
Sulla rivista Altazor una selezioni di miei testi tradotti in spagnolo tratti da: Nella moltitudine (Il vicolo, 2020), Sulla Soglia (Samuele Editore, 2017), Semi di sé (Il ponte vecchio, 2015) e in coda alcuni inediti.
Traduzione Antonio Nazzaro
Revisione traduzione Elizabeth Uribe Pérez
El miedo es un lento morir
Traducción al español de Antonio Nazzaro
Revisión de la traducción: Elizabeth Uribe Pérez
da Sulla soglia (Samuele Editore, 2017)
5 DE JULIO DE 2016
se necesita tiempo para hacer todo.
También para morir. Para decir basta.
Cerrado. Marcharse.
4 DE JULIO DE 2016
el miedo es un lento morir
calma llana en la garganta
una extremidad a la vez
el agua que sube.
22 DE JUNIO DE 2016
grita distancia la maleta cerrada
senderos estelares detrás de la arista cotidiana
porque morir
es solo vivir al revés.
Inedito dalla raccolta Istantanee
h. 5:00 p.m.
las pick up se hinchan en los semáforos en su ruido de fondo de naves espaciales
los chicanos desmontan por los andamios bajo los cascos mojados
en la parada del 628 el hombre de color asedia cada minuto al reloj
en el seven eleven el indigente extiende el cartón de siempre
murmurando ¿tienes un cigarrillo?
h. 5:15 p.m.
yo no fumo desde hace veinte años
detrás de los vidrios una muchacha resopla entre el esmalte cocido y las quisquillas
un chihuahua en el bolso y el supervisor quizás sea de origen italiano
mientras bajo los patios se decoloran los flamencos de plástico
una madre en la cocina revuelve la ginebra en el fondo de una taza
h. 5:20 p.m.
cae una lluvia estival
detrás del verde el óxido en los canceles y ninguna flor en los setos
en los pliegues de un diván un hombre gordo con la cerveza en la mano
y todos corren alrededor todos sudados corren
como si lo hubieran dicho en la televisión.
(Austin, Duval St., 2017)
10 Settembre 2020
Poesie di Monica Guerra tratte dalla raccolta “Nella moltitudine” (Cesena, Il Vicolo, 2020)
MONICA GUERRA
non c’è nulla che non
si possa ripensare entro la geografia
dell’amore
Non è questo, forse, il verso più bello dell’opera, ma certamente è quello che meglio ne racchiude il seme e il senso. Il tono di Monica Guerra è colloquiale, perciò la sua parola va assaporata immaginandoci seduti accanto a lei che pazientemente si e ci interroga sui misteri e sul miracolo della vita, dandosi e dando a ciascuno il tempo di riflettere sulla propria. A volte la voce si alza, le parole diventano pietra, perché così è necessario per superare lo scoglio del dolore e permettersi/ci di reagire.
Se la destinazione è un incrocio, la stagione/chiusa dei tuoi nei lungo la schiena, non resta che re-impastarsi, trovare un pertugio di salvezza che ci salvi dalla resa: io devo rimpastarmi/perché la sostituzione è una strada senza uscita.Quale intimità riesce a creare la nostra poeta con questa allusione ai nei della schiena, quasi una mappa che registra brividi, sussulti, deviazioni; e quanta potenza nel verbo re-impastare, così materico, che ci mostra un movimento di mani, energico e sapiente, prima di distendere la sfoglia nella nuova piega che vogliamo dare alla nostra vita.
La vita – si sa – è percorsa da ferite di varia natura che possiamo scegliere di disinfettare e ricucire o lasciare che si infettino compromettendo la nostra salute, la nostra avventura esistenziale, azzerando ogni speranza. Ma una terza soluzione luminosa, quasi visionaria, e propositiva ci viene dai versi di Monica prima che il/ giorno scucisse una ferita da lucidare. Dunque una ferita si può anche lucidare, rendere brillante, di una ferita si può fare tesoro, punto di forza da dove ripartire. Anche se fa tanto male da sentire il dolore tornare neve, perché sempre ci vuole coraggio per tenere in piedi i giorni camuffando la leggerezza dei disastri…
A cosa serve la poesia in questo nostro percorso salvifico? A cosa serve la bellezza? Amare la poesia cos’è se non invischiarsi nella palude, farsi contaminare per lavare le ferite, farle luccicare al punto da esibirne l’incanto e la fertilità? E amare chi sceglie e impasta le parole, amare un/a poeta che significa? La domanda è posta a maddalena, ma anche a noi lettori/lettrici seduti accanto a Monica: … lo sapevi maddalena che/amare un poeta è una palude ma sottovoce è un/chiodo che lava nel fango tutte le ferite; la distanza/non è un grido ma la misura della bellezza di/uno stame dalla sua radice.
E ancora, che senso hanno allora le lacrime? Ne hanno, eccome, perché è vero che le lacrime sono solo gocce su un confine e i figli naufraghi, in ogni/dove, sono sempre figli tuoi, ma è altrettanto vero che ci aprono a quella fessura, definita da Monica passaggio che, in quanto tale, implica una scelta precisa, in questo caso uno sconfinamento oltre la soglia, dove poter scorgere la pacatezza delle margherite, il profumo di un/cespuglio che si crede inutile, per ribaltare qualche/volta i tavoli e sempre le prospettive…Sì, un cespuglio che si crede inutile può rovesciare, anzi ribaltare- che è termine più forte, efficace, quasi gergale – le prospettive. Ecco l’utilità delle cose inutili, ecco una nuova declinazione della poetica di Monica Guerra.
E qui il discorso si fa più ampio: che poi cos’è un confine, se non una mera convenzione?Così diventa inutile tentare di definirela vita, perché la vita è il miracolo di una inutile definizione. Il che non esime la poeta, e noi insieme con lei, dall’interrogarci sul nostro esserci dentro, chiamati a risponderne affinché non passi oltre senza/capire, per poi rigirarmi all’improvviso maddalena/e rimanere con lo schianto della pelle sulla/pelle e se non facessi in tempo potami una rosa,/sulla soglia, prima di salpare… La rosa, ecco un altro, estremo simbolo salvifico di resilienza, mattoncino essenziale alla poetica di cui sopra.
Certo, essere dentro la vita – ribadisce Monica Guerra –soli, talvolta anche a fianco delle persone più vicine oltre che nella moltitudine, comporta grande sofferenza, può essere peggio di un distacco (ma talvolta disertarsi, fianco a fianco, è peggio di una sparizione…) per cui può servire, per prendere fiato e ricomporsi, accovacciarsi per leccarmi le ferite come un gatto.
Solitudine, dunque, ma anche incomunicabilità, come allude in alcuni passi, sono altre possibili lacerazioni nelle relazioni umane la voce dentro il pugno/gli occhi – te lo diranno/le mie sillabe/a martello chiuse a chiave, ma non tali da non poter essere superate con uno slancio di volontà commovente se invoca: perdona la parola muta/e io che non smetto d’amare/perdona, a distanza, /tutta la distanza che resta.
Il perdono, altra parola chiave che conferma l’impressione di una poesia intrisa di religiosità, non in senso confessionale, naturalmente, né tantomeno devozionale, ma etimologico. Piuttosto in quanto poesia di ponte, di legame compenetrante e consustanziale tra uomini, creature, cose dialoganti nel ventre della natura dove, in aggiunta, una pietas diffusa e convinta afferma la dignità della donna, di ogni donna che si rifletta nella sua maddalena (alla quale si rivolge con un tu nel quale stiamo tutti noi), la sua oblatività, la sua capacità di attendere e di amare oltre e nonostante potenziali incrinature o violenze. Che nulla ha a che fare con atteggiamenti consolatori, ma nutre la sua poetica, dove si coglie una consapevolezza nuova, maturata tra le asperità, il brusio e la bellezza dell’inutile. È in questa oscurità discreta fatta di metafore/ allusioni/ rimandi/ ritmo, in questa penombra gravida che Monica, a mio parere, ha realizzato il suo percorso di disvelamento senza tuttavia rinunciare a quel “diritto all’opacità”, così ben teorizzato da Edouard Glissant.
Ha perciò ragione Francesco Sassetto nella sua appassionata e convincente prefazione a scrivere che i testi raccolti in questa opera “vengono da lontano ed arrivano a farsi poesia – verso o prosa poetica poco importa – per stratificazioni successive di dati esperienziali che trovano il proprio habitus stilistico-formale, la loro piena e nitida espressione, solo nel tempo, costruendo un dettato poetico di forte impatto emotivo, sofferto e commovente nella sua disarmata verità, nella sua dolente umanità dove – non credo di esagerare – ogni parola è, per dirla con Ungaretti, «scavata nellamia vita / come un abisso»”.
Qualcosa che mi ha fatto pensare alla bella espressione del poeta friulano Pierluigi Cappello “trimant al vivi” tremando al vivere, perché al vivere appartiene l’esperienza amorosa in ogni sua forma. E, aggiunge Monica/maddalena: non sono gli anni che restano a guardare ma la rivincita dell’Amore. Come a dire che non c’è ferita in vita che la potenza dell’amore non riesca a sanare.
Una parola merita anche la copertina del libro con una fotografia artistica di grande suggestione, opera di Virginia Morini, che acquista particolare risalto nella elegante veste tipografica de La Collana “Arcana Mundi” – al nero – de IL Vicolo. La punzonatura in argento a caldo, la caratterizzazione grafica del nome dell’Autore (vuoto per il nome e pieno per il cognome) nel carattere “bodoni”, il font per eccellenza degli architetti, rende questa pubblicazione un piccolo gioiello estetico.
Nell’ambito della rassegna “In Tempo” della Scuola di Musica Sarti a cura di Donato D’Antonio, il 9 luglio, alle 21, Il sogno romantico di Daniela Gentile, pianoforte | Luigi Santo, tromba
Musiche di Peskin, Piazzola, Gershwin
Preludio poetico con l’autrice Monica Guerra con una lettura estratta dalla sezione Maddalene della sua ultima pubblicazione Nella moltitudine (Il Vicolo, 2020).
Il “Duo Pitros” nasce con l’idea di raccontare paesaggi sonori che, attraverso l’uso delle molteplici caratteristiche dei due strumenti (tromba e pianoforte), permettono di imbastire una ragnatela su cui interpretare il vastissimo repertorio che è stato scritto per questa formazione. Capaci di trasmettere l’atmosfera giusta, il Duo coinvolge emotivamente il pubblico con un viaggio nel tempo; il loro repertorio spazia dal periodo romantico dell’800 russo fino all’amato periodo americano con Gerswhin e Bernstein, non disdegnando autori contemporanei.
Ingresso 5 euro. Prenotazione obbligatoria. Info: 0546697311, info@micfaenza.org
21 luglio 2020 ore 21.00
presentazione Nella moltitudine alla Biblioteca Comunale Giovanna Righini Ricci, Conselice.
L’autrice dialoga con Rossella Renzi.
da Maddalene
I.
maddalena tu cullavi qualcosa tra i seni piccoli, una bellezza che rimane, un non ti scordar di me tra le crepe, la stanza ubriaca di una primavera prematura mentre fuori dai vetri gennaio era la neve e non importa cosa nemmeno se poi io c’ero davvero, la destinazione è un incrocio, la stagione chiusa dei tuoi nei lungo la schiena
Serata dedicata alla poesia a Conselice con “Nella Moltitudine” di Monica Guerra
clicca qui per l’articolo completo
a cura di Michele Paoletti, sul
POESIA DEL NOSTRO TEMPO
18 maggio 2020
Dalla prefazione di Francesco Sassetto
Una scrittura che rivela, sottotraccia, un fitto e variegato retroterra poetico di cui si scorgono in filigrana echi e reminiscenze – come già sottolineato – di molta letteratura del Novecento italiano, Montale e Pavese innanzitutto, come pure del linguaggio cristiano-evangelico, quale sostrato culturale e linguistico ineludibile, che affiora qua e là nell’opera – in modo anche inconscio – influenzandone alcune soluzioni lessicali. Penso ad alcuni vocaboli di ascendenza montaliana quali bufera, cigolìo, svaporare, scrutare, sgroviglia (tutti nelle maddalene) ed ad alcuni stilemi ed atmosfere decisamente pavesiane. Oltre al tema della “solitudine” – talora toccato con accenti vicini al poeta di Lavorare stanca – si ritrovano nella raccolta movenze e ritmi che riecheggiano lo scrittore piemontese.
Oltre ai due esempi prima citati si guardi anche all’incipit della penultima maddalena: «che strane tutte quelle sere randagie in cui mi giro e mi rigiro e la tua assenza è una mezzaluna che agita il lenzuolo, magari esco per strada […]» Un materiale linguistico-espressivo, dunque, che ha radici profonde nell’amalgamare moduli stilistici di varia provenienza ma del tutto assorbito nella personalissima ed affascinante voce poetica di Monica. Voce che in quest’opera percorre un difficile, solitario cammino segnato da solitudini e silenzi, assenze e distanze, ferite e fallimenti, dove sembra regnare la disfatta e il nonamore, dove nulla ritorna proprio come è stato, alla ricerca sotto pelle, in sé e nella moltitudine, di un seme di senso in una piantagione di silenzio. Per sé e per gli altri.
Un seme da raccogliere e da coltivare.
qui l’articolo completo su LetterateMagazine
a cura di Gabriella Musetti
Il libro di Monica Guerra, “Nella moltitudine”, si apre con una serie di poesie in prosa sulle Maddalene contemporanee, giovani donne «dai seni piccoli,/ una bellezza che rimane, un non ti scordar di me/ tra le crepe». Maddalene silenziose, scomparse e da sostituire nella notte, dal respiro corto e affannoso, lacerate dalle perdite. Con un desiderio di consolazione mai esaudito, «l’alternativa alla/ tenerezza di una panchina», che brucia sulla pelle «camuffando la leggerezza dei/ disastri».
Sono Maddalene perse in un sogno che non è sogno ma distanza dalla realtà così come si presenta, inaffrontabile, ingannevole; sono giovani e meno giovani disarmate di fronte alle tragedie, e tuttavia forti di cuore, non arrese: «tappando nella bufera le falle orfane con una / colla primordiale; di padre in figlio, nella pioggia, la resina/ della tua voce». E quando tutto si disgrega e sembra dissolversi ogni senso e il tempo siede su un’altalena vuota, come quella vita presa a calci con indifferenza, nel gioco di rimandi tra la poeta e Maddalena, da un lieve profumo, da una prospettiva umile e terragna come quella delle piccole margherite di un prato, sbuca improvvisamente una immagine pacata. Perché la vita si vive con «un occhio frontale» e l’immaginazione dirige al centro di un’unica via d’uscita oppure muove senza direzioni precise, ma ogni giorno è da vivere così come accade, a giorni alterni e colpi da schivare.
Nella parte finale della sezione poetica dedicata alle Maddalene si palesa una aperta relazione tra l’autrice,Monica Guerra, e la figura antica, e sembra suggerire una sorta di esortazione gentile rivolta a ogni giovane donna a non lasciarsi travolgere dalla sofferenza e dalla pervicace inquietudine di chi a ogni costo vuole dare un senso afferrabile alle cose, agli eventi. Ma «a volte bisogna consumare bene le scarpe persino i/ piedi oltre la soglia del dolore prima di scovare, sot/ to pelle, un seme di senso in una piantagione di/ silenzio». Come a dire che è una lunga strada quella della esplorazione del senso della vita, a volte difficile e rischiosa da percorrere. Una forma di sollecitazione affettuosa, dunque, a vivere questo tempo che ci è concesso osservandolo dall’interno e scoprendo gli spazi minimi che regala.
Non sembri una prospettiva modesta e deludente a confronto di irraggiungibili sogni, è invece una scelta di misura interiore che dà spazio a soluzioni ponderate e attive, non nasconde la fragilità umana e non cede al narcisismo sconsiderato. E’ interessante che questo colloquio tra la poetessa e Maddalena recuperi tra le righe proprio questa figura archetipica della nostra cultura religiosa e letteraria antica, condensando in essa una serie di immagini di forza e fragilità che bene si possono traslare al presente, basti pensare alle innumerevoli opere a lei dedicate nella nostra recente storia culturale.
Monica Guerra Nella moltitudine (Il vicolo, 2020)
nota di lettura a cura di Michele Paoletti,
clicca qui per leggere su POETARUM SILVA
Libro pieno di voci Nella moltitudine (Prefazione di Francesco Sassetto, Il vicolo, 2020) di Monica Guerra, opera che segue Sulla soglia (Samuele Editore, 2017), raccogliendone gli echi e amplificandoli attraverso poesie e prose poetiche estremamente musicali, in cui ogni parola ne accoglie un’altra, la spinge oltre un limite incerto, atteso, immaginato. Libro dei limiti e dei confini, degli incroci che diventano destinazioni, punti di partenza, approdi, frontiere. Nei testi numerosi sono infatti i rimandi a queste zone d’ombra in cui accade qualcosa, in cui i mai più e i per sempre assumono la consistenza e l’inalterabilità delle pietre. Lo sguardo tenta di spingersi oltre quella soglia in cui idealmente si fermava nei testi del libro precedente, senza abbandonarsi alla disperazione, ma conservando uno sguardo lucido, talvolta ostinato, carico di domande eppure fiducioso, pieno.
Nella moltitudine racconta anche il tentativo spesso impossibile di dire in modo esatto l’assenza, raccontare il vuoto e il dopo: tu continui a sillabare patimenti, non c’è canto di ritorno, cantavamo aprile e i giardini, la parola muta per citare alcuni passaggi in cui l’autrice insiste sull’incapacità della parola di rendere il reale nonostante lo sforzo continuo di dare una forma al dolore.
Altro tema della raccolta è la solitudine.
chiedilo a un petalo le margherite
lo sanno la solitudine
è un’invenzione del tutto umana
Una solitudine quindi che apre uno spiraglio, una possibilità, la moltitudine del titolo. La natura lo sa – dice Monica Guerra – ciò a cui gli esseri viventi appartengono: il pulviscolo, l’unicità a cui tutto torna e da cui tutto ha origine. Allora è necessario ribaltare qualche volta i tavoli e sempre le prospettive, trasformare la soglia in punto di origine, non più deriva ma luogo da cui salpare.
potesse un indizio un indizio
qualunque consolare le vene legiferare
che oltre la soglia non sei sola
Perché, in fondo, Nella moltitudine altro non è che un canto di amore, per Maddalena, per tutte le maddalene che è stata, declinazione di amore raccontata nelle prose poetiche in apertura della raccolta che diviene dunque un percorso avanti e indietro nel tempo del dolore e dell’assenza e si conclude con la mirabile sezione che chiude il libro, nel conto alla rovesciain cui ogni singolo testo ci avvicina alla fine.
Il buio scende a passi semplici dal primordiale, occorre dunque un atto di fiducia: oltre la soglia sta l’indicibile, la moltitudine a cui tornare, il seme della possibilità che germoglierà ancora. Non arrendersi non cambia il decorso, il mistero democratico del morire si presenta davanti a noi nella sua terribile semplicità. Sta a noi accettarlo, abbracciare tutta quella luce, guadagnarsi la soglia sottile. In fondo non c’è nulla che non si possa ripensare entro la geografia dell’amore.
© Michele Paoletti
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maddalena tu cullavi qualcosa tra i seni piccoli,
una bellezza che rimane, un non ti scordar di me
tra le crepe, la stanza ubriaca di una primavera
prematura mentre fuori dai vetri gennaio era la
neve e non importa cosa nemmeno se poi io c’ero
davvero, la destinazione è un incrocio, la stagione
chiusa dei tuoi nei lungo la schiena
Ci sono libri di poesia che si cercano, libri che capitano per caso tra le mani, libri che si attendono. È quest’ultimo il caso dell’ottima quarta opera di Monica Guerra dopo Semi di sé , Sottovuoto e Sulla soglia. In quest’ultima raccolta Monica mette ulteriormente a fuoco, con rigo- re e lucida consapevolezza, i motivi dominanti di un orizzonte poetico ed umano coerente, denso ed in- tenso, lungamente meditato per sfociare poi, in un breve giro di anni, sulla carta. Perché i testi vengo- no da lontano ed arrivano a farsi poesia – verso o “prosa poetica” poco importa – per stratificazioni successive di dati esperienziali che trovano il pro- prio habitus stilistico-formale, la loro piena e nitida espressione, solo nel tempo, costruendo un dettato poetico – e questo è ciò che conta – di forte impatto emotivo, sofferto e commovente (nel senso etimolo- gico del temine) nella sua disarmata verità, nella sua dolente umanità dove – non credo di esagerare – ogni parola è, per dirla con Ungaretti, «scavata nella mia vita / come un abisso». Perciò ho parlato di questo come di un libro di poesia «che si doveva attendere».
Varia e saldamente articolata appare la struttura compositiva dell’opera, divisa in quattro sezioni, quasi quattro “tempi” di una sinfonia. La prima,maddalene, composta di venti prose poetiche, l’architrave del libro, seguita dalle sezioni la cor- rente del silenzio e nella moltitudine che riunisco- no nove brevi liriche ciascuna, per chiudersi con page8image1544nel conto alla rovescia, che racchiude altre sei prose, mesta elegia della perdita irreparabile. L’intera raccolta, ma soprattutto le maddalene, una sorta di “stazioni”, riflessioni e pensieri di un cammino che mira ad un futuro da scrutare con la voce dentro il pugno, è intrisa di vocaboli ed espressioni di ascendenza evangelica: troviamo infatti, più volte, il cerchio spinato, il chiodo, ledodici parole sul copriletto e soprattutto – fin dai titoli delle sezioni – nella moltitudine e maddalena, interlocutrice della prima sezione. Una mad- dalena che, al di là delle identificazioni possibili, è figura di donna vicina a Cristo, cui Monica si rivolge con un “tu” che è, oltre che un “alter ego”, un “noi”, la moltitudine: «io è tanti…», quell’«io retrattile e sconosciuto / per raggiunger- si nella moltitudine», come scrive nella lirica che chiude la sezione omonima. Un linguaggio conno- tato, dunque, anche dal rinvio ai lessemi simboli- ci di una laicissima religiosità che parla all’uma- nità intera, si fa canto universale. E questa è poe- sia vera ed alta, che non vuole insegnare, non ha verità né certezze assolute, può solo indicare unmodus vivendi più pieno e sapido. In questa silloge la poetessa instaura un dialogo assiduo con il lettore, dialogo che cattura, trascina, suggerisce in quale direzione procedere, addita una traiettoria possibile oltre la soglia del dolore e la disfatta quotidiana, per tentare di giungere a scrutare il lato eterno delle cose attraverso l’intercapedine, una sorta di “passaggio” tra la sofferenza e la speranza, il silenzio e la voce, percorrendo i cunicoli, le pieghe dell’esistenza – termini-chiave che ricorrono più volte, come fil rouge, in questa e nelle altre opere dell’autrice – in un incessante lavoro di scavo nelle profondità dell’anima, nellapage8image18392page8image18816page8image18976 consapevolezza che l’intarsio è l’unico perimetro che rimane ed ogni destinazione è un incrocio. Colpisce la capacità di Monica Guerra di creare testi poetici e prosastici densamente allusivi e metaforici, a volte “visionari”, ma senza alcuna concessione ad orfiche oscurità né a scivolamenti autobiografici per quanto la scrittura sia impasta- ta di esperienze vissute e dunque, concreta, mate- rica, ancorata alla terra ed agli eventi dell’esi- stenza, come mostra bene l’alto tasso di occorren- ze di vocaboli che si riferiscono ad oggetti, am- bienti ed eventi della quotidianità e del paesaggio naturale, quel paesaggio che affonda le radici nel- la giovinezza tredoziese della poetessa. Termini come soglia, vetri, pioggia, neve, corrente, spi- ghe, margherite, seme, pelle, lenzuolo costruisco- no un tessuto linguistico di forte valenza evocati- va, che rimbalza all’interno dell’opera e nelle rac- colte precedenti. Basti guardare a come l’endeca- sillabo un non ti scordar di me tra le crepe della prima maddalena provenga direttamente dalla lirica d’apertura di Sulla soglia: «noi ci teniamo per mano / tra le crepe dei non ti scordar di me». Anima quest’opera, infatti, l’intima convinzione che sia da ricercare a tutti i costi l’unica via d’u- scita, la montaliana “via di fuga” che si traduce in una tensione verso l’altro, dolorosa e spesso fallimentare, ma che porta a guardare in facciaperdita, assenza, attesa, distanza. Senza trema- re. Senza fuggire il dolore, la solitudine, le lacera- zioni, come pure il mutare imprevedibile delle di- rezioni, gli equilibri precari perché il “viaggio” continua sempre, con una determinazione che porta la poetessa ad affermare – cito dalle madda- lene – che siamo tutti in «un cerchio spinato senza lo straccio di una direzione e la vita a giorni alterni è ombre superstiti o colpi da schivare». Senza retrocedere né annichilire, anzi, da questa lucida consapevolezza si genera la spinta, la pul- sione a salpare, malgrado «l’infrangersi dell’onda sulle aspettative o persino il repentino cambio di corrente», superare con coraggio la disfatta quo- tidiana senza facili soluzioni consolatorie ma con una volontà ferma di re-azione. Perché, come scri- ve nella chiusa di verrà, dicevi, la sera di piombo, lirica d’apertura della sezione nella moltitudine, modulata in cadenze pavesiane (come non pensare a «Verrà la morte e avrà i tuoi occhi?»): «l’attesa è un tempio / in cui si fa la fame». Bisogna allora «consumare bene le scarpe persino i piedi oltre la soglia del dolore e saper ribaltare i tavoli e qual- che volta le prospettive» per attraversare il pas- saggio che conduce alla pacatezza delle margheri- te. In questa continua dialettica, in questa aspira- zione ad un equilibrio il meno possibile precario vive l’universo poetico di Monica.