“Monaci, tutto brucia! E cosa brucia, o monaci?” Esordisce così il Sermone del fuoco, un sutra del Buddismo più antico, quello nato dall’insegnamento di Siddhārtha Gautama, incluso tra i Samyutta Nikaya (i Discorsi affini) del Canone pāli. Il Maestro, con andamento anaforico, spiega ai monaci come i sensi, vista, udito, olfatto, gusto e tatto, ma anche la stessa mente come facoltà percettiva, creino una combustione dolorosa all’io (“tutto brucia”) nel contatto col proprio oggetto, e che questo fuoco sia mediato da “attaccamento, avversione e confusione”, a causa di “vecchiezza, paura, morte, lamento, disagio, angoscia e scoramento” cioè di molte delle dimensioni costitutive dell’esistenza umana.
Questa considerazione può essere un possibile punto di partenza, ma non di arrivo, della silloge recentemente data alle stampe da Monica Guerra: Entro fuori le mura (Arcipelago itaca Edizioni 2021, collana “Mari interni” a cura di Danilo Mandolini, con quattro fotografie artistiche di Virginia Morini e un saggio di Sandro Pecchiari).
Raccolta poetica in cui, fin dal titolo, è patente l’instaurarsi di una dialettica tra interiorità – vanamente trincerata in allegoriche mura – e realtà esterna, con tutti gli ossimori e le frizioni che questo comporta. Su tale dialettica, che evolve e si trasforma nel corso dell’opera, agisce uno sguardo poetico muscolarmente riplasmante, sonoro, che registra, da un’amara percezione iniziale, un progressivo sovvertimento delle relazioni, fino a un mutamento sostanziale dei termini d’inferenza nelle liriche in chiusura.
Cosa nitida e certa è che una continua reciproca influenza animi la relazione tra parte senziente e lande attigue, di cui Sandro Pecchiari, nel saggio conclusivo, cita opportunamente il Genius loci: spazi non di natura squisitamente topografica, ma spirituale, metaforica, significante, come la poesia stessa la percepisce e ridona, in scambio dialogico con le pulsioni e gli orientamenti dell’anima.
L’opera è suddivisa in quattro sezioni, che segnano il percorso in cui il lavoro poetico di Guerra si concreta e distende: La misura del vuoto, Istantanee, La paralisi del giorno, Nonostante. È evidente, da questi riferimenti miliari, come la riflessione sia scandita in alcuni passaggi, il cui portato meditativo è reso esplicito da subito negli esergo, e poi dispiegato nei versi: un reale inabitabile, a un tempo brulicante e disabitato, non viene rigettato o allontanato, ma descritto in frammenti: l’inventario senza intento, l’osservazione senza giudizio della meditazione; per poi trovare il punto immobile, in cui posare sul poco, patria interiore nuda e saldissima dalla quale il fluire non spaventa più, ma lambisce e sfiora, accolto, e le mura divengono virtuale membrana morale, in osmosi tra psiche e paesaggio, tra percezione individuale e collettiva; laddove il singolo, proiettandosi oltre sé stesso, riesca a conquistare una sede sensibile più elevata, assoluta, vertice serissimo d’individualità integrata, di umanità condivisa.
Nella Misura del vuoto enumerazioni di territori esterni e intimi depongono il soggetto in un senso di desolata estraneità, che è l’abitare universi gremiti di cose e persone, ma privi di messaggio, che insistono su premesse disattese e perseverano nella vuota affermazione di sé: “è un walzer lento tra i versi Šostakovič / e un caldo smisurato all’interno // i vetri s’ingegnano cristalli / – il giorno si fa in gesti – // nell’ora fredda il vuoto qui di fronte, / è la storia che ci tiene vivi, di lato // dieci centimetri di ponte”.
Dove risieda il confine tra il soggetto e gli scenari che gli sono propri – il limite tra chi percepisce e il percepito – è questione antica in poesia, dove l’io senziente può farsi io lirico proprio al cospetto della pressione insostenibile di un reale contundente, che si fa strada nell’interiorità con agguati sinestesici: “una spina questa stagione / in bilico è un guaito punge / il fossato mentre l’altalena / umana si misura le dita // – sempreverde / il ramo dell’indifferenza – ”, l’interazione tra esseri umani è sempre più nuda e sterile: “quel parlare solo con i cani / abbaiare alle solitudini// e le pietre pretese del tutto / disumane fioriscono voci”.
Con tali presupposti, l’esilio pare via feconda, una dimora in cui l’inventario di negazioni quotidiane diviene pietra d’angolo di ogni nuova manifattura di senso. Alleati in questo, non gli altri, i presenti, resi stranieri dall’indifferenza, “diluvio quotidiano” di mancato sguardo, ma i ritorni spirituali che punteggiano il giorno come esordi, in un presente sincronico, di comunione con le anime trascorse, che alla poesia appartiene profondamente: “– ora che i corridoi sono quasi muti / la tua stanza sempre in ordine – // non è più la stagione dei germogli / ma l’arco fiorito delle tue ali ridevo / com’è giusto in mano / alla spina dei giorni disabitati”.
Se mancanza è presenza, più dell’arido momento in atto, allora il tempo dell’attesa, negativo del vissuto pieno, del realizzato, è la piena epoca del vivere: “i girasoli le corolle già spente / sugli steli schienati // qui anche la pineta è piegata / dalla sete fine agosto / è uno sterminio di petali // l’attesa una stagione”; e le vere presenze sono altrove: “restaci un solo morso // – basterà per piangerti al ritorno / da chissà quale linea di contenimento –”, mentre hic et nunc è un andare parallelo e spento, una quotidiana somministrazione di assenza, come reiterata perdita: “ogni voce priva / di un gesto sul fiato che si spacca / così immagino come un’isola / l’ultima carezza sotto le dita mentre / è solo il vuoto che le graffia”.
Le varie forme dell’altro-che-manca includono la morte, ma anche la segregazione: chi porterebbe, forse, parola accesa (come Giovanni, “vivo per poesia”), è tenuto lontano, recluso da imperativi sociali di revisione e disciplina: “in casa protetta / è un diluvio di cedimenti // sporadici e improvvisi refertano / – nulla a che vedere / con l’artiglio dell’isolamento”.
In questi orizzonti già feriti, la pandemia diviene una contingenza sventurata, a rifinire il distacco emotivo con quello sociale, nella conta di chi, colpito dalla malattia, non ce la fa: “ma io volevo salparti sul rituale delle nuvole / senza l’ombra di un’altra croce // implorando ancora un minuto / per abituarmi alla voce del verbo prendere // la liturgia della tua dolcezza / senza mani spacca in due il mondo”.
Che sia o meno a mani giunte, ogni esistenza divide il mondo in due parti esatte. Nella massa sterminata di corpi e anime, ognuno è chiunque e nessuno; ma, per chi l’ama, è tutto. Anna Cavalletti auspicava una pochezza che disturbasse poco: “Un’esistenza, l’esatta divisione dell’aria. Con la morte, l’aria si unisce e si chiude di nuovo. Nessuno si dovrebbe accorgere della differenza… io vorrei occupare poco posto” e fu invece, per Cristina Campo, il ricordo indelebile di tutta una vita.
Ed è questa la misura del vuoto, quell’immensa, puntiforme carenza che ci forgia alla consapevolezza del fluire: principio spietato e incantevole che, fatto combaciare ai contorni dell’anima, è la sola liturgia di pace.
Nelle Istantanee le immagini si susseguono e finiscono di spogliarsi, lasciando a terra ogni residuo di valutazione e connotazione: nei frammenti lirico-narrativi le cadute che tutti ci riguardano, la disperazione della dipendenza, la solitudine del clochard, la vita corrotta dal consumismo che ci divora di vizi e debolezze, le retoriche di fittizie solidarietà, la maldicenza, l’esasperata insofferenza. Mentre in natura tutto si muove con sapienza anteriore, nella sfera umana tutto avanza come un macchinario rumoroso e guasto, ma inarrestabile. A segnatempo, sgangherato metronomo delle nostre vite, sono la produzione e il consumo, che lastricano la via verso una senilità senza gloria.
Ma esiste un altro tempo, che in amore dilata, smargina, perde il conto. A soprammercato, la vita terrena nella sua corporeità è visitata dell’impossibile, quando il finito va a racchiudere l’infinito, e si fa il varco all’interminato che giace nelle cose piccole: “il nonno dice le carpe / e i conigli nani sulla riva del lago / il pane secco si sbriciola / intorno alle tane / fra la conta delle querce // – l’amore chiede tempo –”, ignorando bilanci e programmazioni, sovvertendo questo stare sfrenati, solo in ciò che porta frutto: “attraversa di fretta / nel tailleur grigio / sui tacchi in ritardo // il clacson protesta / al semaforo verde // – il tempo / è ringhiarsi l’un l’altro –“.
Aggregati sociali come arcipelaghi d’incomprensione e non-appartenenza, la presenza mediatica e sociale come surrogato di felicità, le relazioni consumate distrattamente, la noncuranza di fronte all’altrui patire, le collere improvvise, i disfunzionali eccessi di reattività al cospetto di fastidiose inezie: Guerra sa dire di un’umanità sfinita, inasprita dalla dovizia di offerta e dalla carenza di domanda, dall’inattività forzata, dalla saturazione del mercato del lavoro, dal fermo della pandemia, da una pervasiva inautenticità.
Se Fuori le mura la realtà è caotica e ostile, e avanza in quel modo meccanico, incespicante che nulla ha del fecondo scorrere in metamorfosi dei presocratici, il passaggio forzato, inevitabile è attraverso il punto fermo della propria afflitta intimità, che diviene fortezza sorvegliata, dove si può ripercorrere a ritroso l’entropia circostante: “ non un’orma fuori posto / entro le mura // la distanza è un confine / e nessun cedimento / qui tutto è vuoto e perfetto // il prato spinato / l’esilio di un fiore”.
Solo nel riporsi che conosce la spina, sembra dire Guerra, la via si fa chiara: smantellare una ad una le fortificazioni che ci fanno cittadelle dolenti, illuse che l’io sia protetto, mentre è solo isolato. Insorgere alla paura, alla presunzione d’esser retti, esatti: “sconfitti o vincitori paludi / immortali perché soli // a ribadire noi i giusti / e qualcuno sempre contro”; all’illusione che qualcosa di materiale possa esserci meta o patria.
Allora scrivere potrebbe mostrarsi come uno dei tanti gesti inutili, l’emblematico schianto di ogni azione nel suo esito mancato; eppure, c’è “una pace distratta / fra le dita di uno scoiattolo” e “la verità freme libera / in una tana disabitata”: benché sia sempre più rastremato il “tempo per la cura”, e “sotto le ciglia” dimori stabilmente “la piaga dell’attesa”, permane un “canto” che diffonde “in ogni direzione”, ricordandoci che “oggi è un randagio / in attesa di un gesto d’amore”.
L’ultima sezione, Nonostante, si apre con un’epigrafe illuminante, che auspica la durata, il luogo morale della permanenza e del ritorno: l’essere in sé, l’appartenersi come antidoto all’ universale esilio che ci ammala: “chiedilo a un indizio di neve / niente è impossibile // nell’unità il punto zero esiste / fosse ripartire dalla cenere”.
La “bussola verso l’interezza” diviene il contrario di un isolato fortificarsi, ma sembra coincidere piuttosto con l’accoglienza, col farsi pervadere da quel dolore cosmico che è una molteplicità integrata, frattale di un sentire individuale che, se frammentato, è finanche più sofferto: “ricurvi in una sarabanda di spine / di metro in metro / ognuno è il suo calvario”, e ancora: “l’innesto della solitudine / è un gorgo di rumore / e nonostante setacciamo / conchiglie tra le pene // sollevarsi è infilare l’onda / nel canto di ogni voce”.
Immobilità e impossibilità, delusa aspettativa sono elementi ricorrenti nell’opera, compatte smentite cariche di energia potenziale rovesciata. Ma Guerra è tenace nel setacciare luce, con sintassi mai pigra, a versificare una poesia accorta, esatta: già in lavori precedenti, eccola di fronte alla perdita: “per la semplicità estrema ch’è morire / mi trovo qui a sgusciare una bellezza / a isolare la cenere dal miele / il tempo a stanarne il tarlo” (Monica Guerra, Sulla soglia. On the threshold. Edizione bilingue. Traduzione di Patrick Williamson, Samuele editore 2017); e ancora, nell’allegorica via crucis delle Maddalene: “a volte bisogna consumare bene le scarpe persino i piedi oltre la soglia del dolore prima di scovare, sotto pelle, un seme di senso in una piantagione di silenzio, a volte bisogna frugare bene fra le spighe ogni melodia superstite: l’amore basti all’amore, un fruscio notturno narra il sublime in un terreno indecifrabile” (Monica Guerra, Nella moltitudine, prefazione di Francesco Sassetto, Il Vicolo Editore 2020).
Tale “terreno indecifrabile” è l’elemento naturale, che col suo muoversi in libero fluire esprime il soffio con cui la vita si manifesta e trasfigura, sempre diversa e uguale a sé stessa. Ed è nella natura, al di là di ogni retorica, l’innegabile essenza e origine di ciascuno, il condiviso senso creaturale, laddove una verità lentissima scivola e tace, dando l’assoluto significato, come in una “foresta ghiacciata” risuona “il silenzio buono della rinascita”. Centro inatteso, silente, che dimora nelle presenze più minute e ricompone l’alterità in unità molteplice, fino a scontornare i limiti, far coincidere, combaciare.
Recedere nel baricentro più quieto del proprio essere, dimensione aperta “dove s’intersecano / i piani curva o fondale / chi tace e chi luce” (Nella moltitudine, op. cit.) fa della sofferenza una risorsa di compassione, che aiuta a dismettere le barriere: scoprire che non vi è nulla di solido nelle nostre mura, nulla che non possa essere reso lieve e trasparente, se, ritirandosi in silenzio, si coltiva l’ascolto profondo, e agli altri ci si avvicina.
Isabella Bignozzi